L’articolo 240 bis del Codice penale, introdotto dall’articolo 31 della legge 17 ottobre 2017, numero 161 (in sostituzione della legge 7 agosto 1992, n. 356), stabilisce il divieto di giustificare la legittima provenienza dei beni oggetto della confisca allargata o del sequestro ad essa finalizzato, basato sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale.
Questo divieto si applica anche ai beni acquistati prima della sua entrata in vigore, ad eccezione di quelli acquisiti nel periodo tra il 29 maggio 2014 (data della pronuncia delle sezioni unite numero 33451/ 2014) ed il 19 novembre 2017 (data di entrata in vigore della legge N. 161 del 2017).
La questione centrale rimessa all’esame delle sezioni unite riguardava la retroattività di questo divieto. In altre parole, si è discusso della possibilità per il soggetto destinatario di un provvedimento di confisca cosiddetta allargata o di sequestro finalizzato a tale tipo di confisca di giustificare la legittima provenienza dei beni, sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale.
In particolare, si chiedeva se tale possibilità valesse anche per i cespiti acquistati prima del 19/11/2017, data di entrata in vigore dell’articolo 31 della legge n. 161 del 2017.
La questione sollevata poneva in contrasto due orientamenti principali:
Dopo aver esaminato le diverse interpretazioni sulla retroattività del divieto, la Suprema Corte ha analizzato le modifiche legislative e l’evoluzione del modello legale originario, focalizzandosi sull’importanza delle decisioni giudiziali per la tutela dell’affidamento e l’effettività del diritto di difesa.
È stato sottolineato che la riforma del 2017 ha introdotto un significativo “appesantimento” dell’onere di allegazione, modificando profondamente il contesto processuale esistente. Questo cambiamento solleva questioni di diritto intertemporale, in particolare sul trattamento delle leggi processuali penali sopravvenute e sulla loro applicazione ai fatti pregressi, dove il principio di “tempus regit actum” può essere mitigato per preservare l’affidamento dei cittadini su un assetto normativo precedentemente stabilito.
Ebbene, secondo la Corte, la valenza prettamente processuale della norma introdotta con la legge n. 161 del 2017 impone di fare riferimento non tanto all’articolo 236 del codice penale e dal principio dell’incondizionata retroattività della legge sopravvenuta, quanto, piuttosto, allo statuto Intertemporale espresso dall’articolo 11 delle preleggi.
In particolare, si è precisato che, al fine di individuare la norma processuale penale applicabile tra quelli interessati da un fenomeno successorio, ovvero l’ambito applicativo di una norma processuale penale sopravvenuta, l’operatività del principio tempus regit actum può essere mitigata e temperata, in ragione della necessità di tutela dell’affidamento dei consociati sull’assetto di una predeterminata base legale, stabilizzata dal diritto vivente.
Principio, quest’ultimo, che vale anche per le fattispecie complesse, come la confisca allargata: pur non avendo natura strettamente “penale”, la stessa caratterizzata per il riferirsi ad una concatenazione di atti e fatti collocati in tempi diversi, rispetto ai quali occorre avere riguardo all’affidamento della parte di potersi difendere provando al fine di superare la presunzione di illecita accumulazione.
Nel delineare la portata della retroattività del divieto, la Suprema Corte ha poi chiarito come, limitatamente ai beni acquisiti nel periodo intercorrente tra la data della sentenza delle sezioni unite Repaci e quella di entrata in vigore della legge n. 161 del 2017 (ossia il 19 novembre 2017), la posizione processuale del condannato era misurata su un assetto normativo consolidato.
Pertanto, l’introduzione del limite probatorio sopravvenuto non costituisce per il condannato una modifica accessoria peggiorativa della base legale consolidata, ma incide profondamente sul pregresso assetto normativo, alterando il rapporto tra diritto e processo.
Le diverse conclusioni raggiunte dalla Corte, quindi, evidenziano che nessuno dei due orientamenti in contrasto è stato ritenuto pienamente condivisibile dal Collegio:
In base a queste considerazioni, la Corte ha formulato un nuovo principio di diritto, secondo il quale il divieto probatorio si applica anche ai beni acquisiti prima della sua entrata in vigore, ad eccezione di quelli acquisiti nel periodo dal 29 maggio 2014 (data della sentenza Repaci – numero 33451) e il 19 novembre 2017 (data di entrata in vigore della legge numero 161 del 2017), sottolineando la necessità di un equilibrio tra l’efficacia della legge e la protezione dei diritti dei cittadini.
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