Nel contesto della bancarotta fraudolenta, il giudice di merito ha il compito di determinare se il prelevamento di denaro dalle casse di una società in crisi, effettuato da un amministratore privo di delibere assembleari o di previsioni statutarie sul compenso, configuri un delitto di bancarotta preferenziale o di bancarotta fraudolenta per distrazione.
La valutazione si focalizza sulla reale esistenza di una prestazione che giustifichi il compenso e sulla congruità del prelievo rispetto all’impegno dedicato. Tale situazione può evolvere in bancarotta fraudolenta patrimoniale, specialmente se emergono evidenze di intenti fraudolenti verso i creditori.
La quinta sezione penale, esaminando un appello contro una decisione precedente, ha annullato la sentenza impugnata. In seguito a questa revoca, ha incaricato il giudice di rinvio di condurre un’ulteriore indagine per stabilire se l’amministratore avesse effettivamente diritto a un compenso e se l’importo prelevato corrispondesse in modo congruo all’attività svolta a favore della società. Questa verifica è cruciale per determinare se la condotta dell’amministratore debba essere reinterpretata come bancarotta preferenziale, piuttosto che come bancarotta fraudolenta, in base ai risultati di queste valutazioni.
È stato sostenuto che, pur riconoscendo l’astratta sussistenza di un diritto al compenso per l’attività prestata, non si può trovare fondamento nell’articolo 36 della Costituzione solo per l’accettazione della carica di amministratore. L’attribuzione autonoma di un compenso, in assenza di una specifica delibera o disposizione statutaria, non configura di per sé il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale.
Tuttavia, l’assenza di una delibera può essere un indice di possibili intenzioni fraudolente, ma non sufficiente a provare la distrazione fraudolenta. La congruità del compenso prelevato è invece un indicatore significativo che può orientare la valutazione della condotta verso dinamiche preferenziali o distrattive.
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