L’imprenditore, il direttore generale o l’amministratore che, pur di ottenere prestiti, ricorre a operazioni illecite atte a dissimulare lo stato patrimoniale della propria attività per ingannare i creditori commette il reato di ricorso abusivo al credito. Essendoci, da parte dell’agente, la consapevolezza di non poter ripagare il debito e la coscienza di procurare danni ai creditori a causa della condizione di dissesto della propria impresa, si parla di reato di pericolo a dolo generico.
L’articolo 218 della Legge Fallimentare fornisce una forma di tutela ai soggetti che instaurano trattative economiche inerenti ai prestiti con attività in condizioni patrimoniali critiche non ancora fallite. La norma dice:
“Gli amministratori, i direttori generali, i liquidatori e gli imprenditori esercenti un’attività commerciale che ricorrono o continuano a ricorrere al credito, anche al di fuori dei casi di cui agli articoli precedenti, dissimulando il dissesto o lo stato di insolvenza sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni.”
Il reato di ricorso abusivo al credito, come abbiamo visto, si configura quando chi esercita un’attività di tipo imprenditoriale o commerciale si impegna ad assumere un debito con la consapevolezza di non possedere i requisiti economici per poterlo saldare in futuro. Il delitto non si configura qualora il credito sarebbe stato comunque concesso fornendo al creditore tutte le reali informazioni sullo stato dell’attività. Per integrarlo occorre, quindi, che ci sia dissimulazione o anche il semplice silenzio sulla situazione d’insolvenza. Nel caso in cui per ottenere il prestito, la dissimulazione del dissesto economico sia fatta attraverso raggiri o atti fraudolenti, non si parla più di ricorso abusivo al credito ma si configura un reato ben più grave: la truffa.
In questa situazione non è a repentaglio soltanto il patrimonio del soggetto che concede il prestito, ma anche quello di eventuali creditori precedenti che vedrebbero notevolmente diminuito o del tutto annullato il proprio diritto di essere risarciti. Inoltre, il possibile nuovo credito ottenuto andrebbe a falsare ulteriormente il patrimonio dell’imprenditore che potrebbe, così, continuare a contrarre ulteriori debiti.
Un aspetto molto dibattuto riguarda la frase “anche al di fuori dei casi previsti negli articoli precedenti” che troviamo nella norma e che indica i reati di bancarotta previsti e disciplinati negli articoli precedenti. In molti hanno interpretato questa frase nel senso che la punibilità del reato in oggetto non sia condizionata alla dichiarazione di fallimento come per i reati di bancarotta; altri invece hanno ritenuto la dichiarazione di fallimento il limite da cui dipende il reato.
Alla fine è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza 24/06/2019 n. 36985 decretando che il reato di ricorso abusivo al credito richiede che l’imprenditore che commette l’illecito venga successivamente dichiarato fallito e che è proprio l’attestazione di fallimento a rendere concreto e reale il danno nei confronti dei creditori.
Il reato di ricorso abusivo al credito è punito con la reclusione da 6 mesi a tre anni e si consuma nel momento di dichiarazione di fallimento dell’imprenditore. La procedibilità è d’ufficio, la competenza è del Tribunale Monocratico e la prescrizione scatta dopo 6 anni.
La Legge punisce:
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